Gli shock hanno sempre portato all'affermazione di un movimento securitario, finendo per limitare il libero mercato
14 Aprile 2025
Affari & Finanza – la Repubblica
Alessandro De Nicola
Argomenti / Teoria e scienze sociali
In questi tempi turbolenti è bene chiedersi se il caos rivoluzionario scatenato da Trump sia il frutto di circostanze eccezionali e rapidamente reversibili oppure il risultato di un processo storico anch’esso fortunatamente reversibile (non siamo mica hegeliani qui) ma che da tempo si manifesta nella politica mondiale. Sotto questo profilo possiamo dire che – così come Giulio Cesare fu un uomo eccezionale, ma la Repubblica Romana era un edificio traballante nel momento in cui egli prese il potere e di fatto creò il principato – così Trump è un personaggio abile ed imprevedibile, ma l’ordine internazionale liberale e la libertà di commercio che lo ha accompagnato sono minacciati da almeno un ventennio.
Il come ce lo spiega bene un libro di Alberto Saravalle e Carlo Stagnaro, “Capitalismo di guerra“. I due autori, giurista l’uno ed economista l’altro, accomunati da una visione politica liberale, spiegano la lenta ma pervicace involuzione del XXI secolo. Orbene, dalla fine della Seconda guerra mondiale il mondo ha conosciuto una trasformazione economica incredibile: il Fmi, la Banca Mondiale, il Piano Marshall, il Gatt, poi Wto, la Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio del 1951 che portò al sorgere dell’Euratom e della Comunità Europea, per arrivare agli accordi regionali più recenti come il Mercosur o l’Asean. Tutte istituzioni volte ad accompagnare l’internazionalizzazione dei commerci, la libertà degli investimenti, la stabilità macroeconomica e monetaria degli Stati e lo sviluppo dei Paesi arretrati. Una traiettoria che ha portato, tra discese ardite e risalite, alla globalizzazione. E stato grazie a tale percorso che le persone sotto la soglia di povertà estrema sono passate da 2 su 5,3 miliardi di abitanti nel 1990 a 700 milioni su 8 miliardi nel 2022: dal 38 al 9 per cento.
Quali sono state le determinanti di un tale progresso? In primis, ogni tanto l’uomo impara dall’esperienza. I catastrofici anni Trenta, caratterizzati dal protezionismo mondiale che aggravò la Grande Depressione e che sfociarono nella Seconda guerra mondiale erano ancora vivi nella memoria delle classi dirigenti occidentali desiderose di evitare il ripetersi della tragedia. Inoltre, ricordano gli autori, «man mano che la tecnologia si è fatta più complessa, e operatori di Paesi diversi hanno cominciato a cooperare, la dimensione nazionale dei mercati si è fatta sempre più insostenibile. La creazione di catene di valore ampie e `lunghe’ è stata essenzialmente una necessità pratica». In altre parole, il progresso scientifico e tecnologico rendeva indispensabile l’apertura dei mercati.
In più, il collasso dell’Urss e il sentiero capitalistico sui cui si avviò la Cina a partire dagli anni Ottanta aumentarono l’altro elemento essenziale alla libertà dei commerci: la fiducia. «La dipendenza da Paesi ostili – si ricorda nel libro – l’integrazione economica troppo spinta con aziende o territori di cui non ci fidiamo non si può pensare non abbia conseguenze». In un’era di pace, ci si è ovviamente fidati di più di investitori stranieri e di filiere lunghe. E allora come mai il giocattolo si sta rompendo? Dall’11 settembre 2001 il rinnovato spettro del terrorismo, la crisi finanziaria del 2008 che si è in Europa riverberata anche sui debiti sovrani, la pandemia, l’invasione dell’Ucraina che ha scatenato un’emergenza energetica e l’immigrazione di massa, il tutto sotto la minaccia, inaudita nella storia dell’umanità, del cambiamento climatico, sono stati shock che hanno contribuito al cambiamento di paradigma.
Ognuno di questi elementi ha portato con sé un atteggiamento securitario nella sfera economica: barriere all’ingresso di capitali esteri, rimpatrio di produzioni considerate strategiche (basta aspettare le mascherine dalla Cina!), impedimenti alle esportazioni di beni tecnologicamente avanzati, riduzione della dipendenza da Paesi canaglia o inaffidabili. Il tutto condito da un massiccio intervento pubblico che ha scassato i bilanci statali, frenato liberalizzazioni e privatizzazioni, drogato i valori immobiliari ed azionari grazie alla politica monetaria rilassata, il che ha dato la sensazione che i ricchi (chi aveva già case ed azioni) si arricchissero senza sforzi e meriti. Ecco che le soluzioni populiste e sovraniste sono tutte d’un tratto diventate non solo popolari ma parte persino del mainstream intellettuale e politico. C’è una soluzione?
I nostri due autori sono un po’ pessimisti ma non demordono e credono che la prima cosa da fare sia la pulizia del linguaggio che oggi adotta termini eufemistici per descrivere i fenomeni nazionalistici e protezionistici. E non bisogna rinunciare a contrastare la narrativa distorta per la quale ciò che ci ha reso ricchi in realtà ci avrebbe immiserito e che quel che storicamente ha portato a guerra e miseria renderà i nostri paesi great again. Come ci ammonisce il Candide di Voltaire, non viviamo nel migliore dei mondi possibili di Pangloss, ma ognuno deve intanto provare a coltivare il proprio giardino.